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Messaggio Da MartaRinaldi Lun Ago 01, 2011 9:27 am

segnalo questo interessante articolo che ho letto oggi su www.infosalute.info riguardo al convegno che tratta il tema dei 30 anni di AIDS. Smile

A 30 anni dall’esplosione dell’AIDS, per la prima volta si vede all’orizzonte la possibilità di “spegnere” l’epidemia: parte da Roma, dove comincia oggi IAS (International AIDS Society - Conference on Pathogenesis, Treatment and Prevention of HIV Infection) 2011, il più importante appuntamento scientifico a livello mondiale dedicato all’AIDS, la rivoluzione che, unendo insieme farmaci e prevenzione, con un impiego più precoce delle terapie antiretrovirali, permette di abbattere la carica virale delle persone infette, ridurre la carica complessiva di virus circolante all’interno delle comunità e diminuire drasticamente il rischio di trasmissione del virus. E grazie all’avvento di terapie antiretrovirali sempre più potenti, torna d’attualità anche l’obiettivo dell’eradicazione completa dell’HIV. Questa nuova prospettiva è al centro di un Media Tutorial, realizzato grazie al contributo di MSD Italia, che si svolge con la partecipazione dei principali opinion leader italiani nella giornata inaugurale di IAS 2011, appuntamento che dal 17 al 20 luglio vedrà a Roma circa 7.000 specialisti di tutto il mondo chiamati a confrontarsi sulla prima “patologia globale” a 30 anni esatti dall’inizio dell’epidemia. Era infatti il 5 giugno 1981 quando dagli USA arrivarono le prime informazioni su alcuni insoliti casi di polmonite in giovani bianchi americani: da allora, l’HIV ha infettato oltre 60 milioni di persone in tutto il mondo, oltre 25 milioni di persone sono morte di AIDS e circa 33 milioni convivono attualmente con l’HIV. Quindici anni fa l’avvento delle terapie antiretrovirali di combinazione ha modificato il corso della malattia e oggi, almeno nei Paesi a economia avanzata, l’aspettativa di vita di un paziente in terapia è comparabile a quella del resto della popolazione. “Grazie ai farmaci siamo stati in grado di cronicizzare l’infezione, ma la partita è ancora aperta” – afferma Stefano Vella, Direttore Dipartimento del Farmaco all'Istituto Superiore di Sanità, Co-chairman di IAS 2011 e componente del Comitato Coordinatore – “ci sono segnali preoccupanti che indicano una ripresa delle infezioni: in alcune zone della Francia si registra un’incidenza simile a quella del Botswana, a Washington i numeri sono simili a quelli dell’Uganda. I comportamenti e i contesti sociali agevolano la trasmissione del virus, e la percezione del rischio è bassa. E in Africa e nel Sud del mondo la malattia resta a esito infausto perché la stragrande maggioranza di chi ha bisogno di farmaci ancora non ne ha”. In Italia sono stimate da 143.000 a 165.000 persone HIV positive e di queste oltre 22.000 con AIDS. “L’AIDS non è affatto sotto controllo” – afferma Massimo Andreoni, Professore Ordinario di Malattie Infettive dell'Università di Roma Tor Vergata – “ogni ora nel mondo circa 200 persone muoiono di AIDS e ogni giorno si verificano circa 7.400 nuove infezioni, ma meno della metà quotidianamente inizia la terapia. La maggior parte dei contagi avviene per via sessuale tra eterosessuali che non percepiscono il rischio nel fare sesso non protetto. E circa la metà delle persone che giungono alle nostre cliniche hanno contemporaneamente la diagnosi di sieropositività e di AIDS, con una grave compromissione clinica”. È il fenomeno dei late presenters, ovvero persone che si percepiscono immuni e non fanno il test. “Nell’agenda della comunicazione l’AIDS ha subito negli ultimi anni un black-out che ha contribuito a dare forma all’attuale aspetto epidemiologico con cui si presenta l’infezione da HIV” – afferma Marco Borderi, Dirigente Medico I livello U.O. Malattie Infettive dell'A.O. Policlinico S. Orsola-Malpighi di Bologna e Direttore HAART – “è cambiato il virus ma è cambiato anche il paziente. Che non percepisce più il rischio e giunge tardi alla diagnosi, con un quadro clinico seriamente compromesso. Ma per fortuna sono cambiati anche i farmaci”. Ma insieme ai problemi legati alla diagnosi tardiva, i medici devono confrontarsi anche con quelli legati all’aumento della sopravvivenza. La cronicizzazione della malattia ne ha fatto emergere anche aspetti prima poco valutati, come quello infiammatorio. “In passato le manifestazioni cliniche della malattia erano quelle legate all’immunodeficienza, oggi sono soprattutto quelle legate alla senescenza precoce dei pazienti, guidata dai meccanismi di infiammazione cronica e immunoattivazione, con danno a carico dei sistemi di organo”, afferma Andrea Antinori, Direttore Malattie Infettive all'INMI Lazzaro Spallanzani di Roma – “ad esempio a carico del sistema cardiovascolare, con il rischio di infarto o comunque di malattia coronarica o anche di malattia cerebrovascolare. Ma questa infiammazione cronica causa effetti anche su rene, fegato, ossa e altri organi bersaglio. E può essere particolarmente rilevante il danno neurocognitivo”. Le numerose terapie antiretrovirali oggi disponibili permettono di gestire le comorbilità e di affrontare le diverse tipologie di pazienti, adattando la combinazione migliore al paziente a seconda che arrivi alla diagnosi in fase avanzata o precoce. “Se il paziente arriva alla diagnosi abbastanza precocemente, non dovrebbe più morire di AIDS. È uscito un lavoro che mostra che se un ventenne si infetta oggi possiamo farlo vivere fino a 69 anni” – afferma Giuliano Rizzardini, Direttore Dipartimento Malattie Infettive dell'Ospedale Luigi Sacco di Milano – “ma numerosi pazienti giungono tardi alla diagnosi, con infezioni opportunistiche già manifeste e in questi casi occorrono farmaci da subito potenti e rapidamente efficaci per ristabilire ordine. Sarebbe opportuno usare al meglio all’inizio tutte le cartucce buone e poi, ottenuta una buona risposta, passare alla gestione della stabilizzazione del paziente”. Inoltre la terapia precoce, con l’uso anticipato dei farmaci antiretrovirali, si sta rivelando parte integrante della prevenzione. È questa la “rivoluzione annunciata” nel corso di IAS 2011: una persona la cui carica virale è abbattuta grazie alla terapia farmacologica non infetta gli altri. Con il cosiddetto “effetto di comunità” l’efficacia della terapia sul singolo individuo si trasforma in un’efficacia estesa socialmente. Ma occorre che la persona sia a conoscenza del proprio status sierologico e per questo resta fondamentale il test. E all’orizzonte si delinea la prospettiva più affascinante: quella dell’eradicazione completa del virus, prospettiva resa più concreta dalla disponibilità di farmaci sempre più potenti ed efficaci come raltegravir, farmaco MSD, capostipite della classe degli inibitori dell’integrasi. Proprio nel corso di IAS 2011 vengono presentati nuovi dati di efficacia a lungo termine (5 anni) di raltegravir in confronto con efavirenz, che dimostrano come il 69% dei pazienti in terapia con raltegravir abbia mantenuto la soppressione dei livelli di carica virale al di sotto di 50 copie/mL e abbiano inoltre registrato un aumento maggiore dei CD4. Inoltre raltegravir rispetto ad efavirenz associa al dato di efficacia anche una migliore tollerabilità, in particolare rispetto al profilo lipidico. L’aspetto degli effetti collaterali, e quindi della qualità di vita, è ritenuto sempre più determinante in persone che oggi possono e vogliono non solo vivere a lungo ma vivere bene. Nelle giornate romane in definitiva si celebra il grande mutamento di prospettiva avvenuto nell’arco di questi 30 anni anche grazie al contributo e all’impegno di aziende come la MSD, che ha plasmato l’approccio terapeutico contro l’infezione dell’HIV, mettendo a disposizione dei pazienti i capostipiti di tre delle classi di farmaci antiretrovirali : il primo inibitore della proteasi, il primo inibitore della transcrittasi inversa e – con raltegravir – il primo inibitore dell'integrasi.
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Messaggio Da Conan Lun Ago 01, 2011 12:30 pm

I passi in avanti si stanno facendo (come è giusto e normale che sia), le nuove medicine stanno venendo fuori ma come spesso accade il primo passo utile da fare è la prevenzione e come sottolinea anche l'articolo spesso è proprio questa che manca perchè la gente non si rende conto dei rischi a cui va incontro assumendo comportamenti a rischio.
Con il tempo di sicuro si riuscirà ad eradicare questa grave malattia moderna, la strada è ancora lunga ma, come possiamo vedere, i progressi piano piano stanno avanzando.
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Messaggio Da MartaRinaldi Ven Ago 05, 2011 7:08 am

in merito a ciò, leggevo oggi di un'intervista pubblicata sempre su www.infosalute.info riguardo alle nuove frontiere di cura. dopo 30 anni, purtroppo, la prevenzione è ancora poca Sad


Il direttore del dipartimento Malattie Infettive dell'ospedale Luigi Sacco di Milano afferma che si rende necessaria una evoluzione nelle terapie, unendo magistralmente terapia farmacologica e benessere per migliorare l'aspettativa di vita dei pazienti che soffrono di AIDS.

A distanza di 15 anni dall’inizio dell’HAART disponiamo di un armamentario terapeutico notevole, che ci permette di affrontare il nuovo volto dell’AIDS e soprattutto le diverse tipologie di pazienti. Ne sono convinto anche perchè se da un lato le linee guida definiscono correttamente i parametri cui occorre riferirsi, si sta andando sempre più verso una terapia individualizzata. Con le diverse combinazioni oggi assemblabili disponiamo della possibilità di adattare la terapia migliore al paziente a seconda che arrivi alla diagnosi in fase avanzata, o precoce. Va sottolineato che non solo l’elevato numero di molecole disponibili, ma anche il fatto che appartengono a classi di farmaci diversi ci consente di rispondere al meglio alle necessità di ciascun paziente. Il vincolo che abbiamo di fronte non è clinico, ma di costi, che ci obbliga a riflettere bene sulle nostre scelte: la terapia costosa va scelta solo quando è necessaria per il quadro clinico che il paziente presenta e poi, magari in una seconda fase una volta che il paziente si è stabilizzato, se lo riteniamo opportuno, modificarla, realizzando un costo inferiore.

Classi diverse ma anche profili farmacologici meno complessi, Oggi per effetto dell’immunosenescenza la persona con HIV/AIDS presenta diverse comorbidità associate al processo di invecchiamento che necessitano un approccio polifarmaceutico e la disponibilità di farmaci con scarse interazioni è un’opzione importante. Con l’invecchiamento aumentano le patologie concomitanti. Quindi il primo approccio al paziente con HIV deve tener conto di un’anamnesi veramente molto ben fatta, considerando sia le patologie pregresse sia quelle concomitanti, un’analisi del rischio cardiovascolare e di tutti gli altri fattori di rischio, anche per i tumori. Anche lo screening di base deve esser condotto con attenzione per valutare la presenza di infezioni concomitanti come i virus epatitici. Se il paziente arriva alla diagnosi abbastanza precocemente, se è gestito bene clinicamente, se viene effettuato un counselling corretto per garantire una buona aderenza alla terapia, se vengono messe in atto eventuali strategie di induzione e mantenimento che le nuove molecole consentono, il paziente con HIV non dovrebbe più morire di AIDS. Ovvio, se lo si tratta precocemente, perchè più lo prendi in fase avanzata più fai fatica a raggiungere questi risultati. È questo il senso delle linee guida anglosassoni, quelle americane in particolare, che tendono ad anticipare l’inizio della terapia rispetto alle altre linee guida, ad esempio quelle nostre che sono un pò più pragmatiche: occorre riferirci, pensano alla patogenesi della malattia, al processo infiammatorio che è indotto dal virus e che è molto persistente anche a CD4 elevati. Forse in questa situazione occorre trovare una mediazione.

Mediazione di che genere? Dobbiamo cambiare un po’ la mentalità del fare terapia. Una volta parlavamo di sequenziamento terapeutico per prevenire l’insorgenza delle resistenze e per risparmiare alternative terapeutiche future, definendo questa strategia in funzione dell’eventuale fallimento. Oggi i pazienti vanno molto meno incontro a fallimento terapeutico, e dobbiamo ragionare con mente più libera: per cui scegliere quali farmaci usare in prima battuta, modificare la terapia quando necessario e possibile, semplificare e poi, se necessario, tornare indietro con i farmaci usati all’inizio. Le linee guida sono importantissime perché ti indirizzano, ma oggi l’obiettivo è guadagnare quei 10 anni che mancano all’equiparazione tra l’aspettativa di vita dei nostri pazienti e quella della popolazione generale. È uscito un lavoro che mostra che se un ventenne si infetta oggi possiamo farlo vivere fino a 69 anni: l’obiettivo è appunto quello di recuperare quel gap gestendo al meglio la terapia con i farmaci che oggi abbiamo disponibili, in un ottica di migliore gestione delle eventuali comorbidità.

Comorbidità del tutto diverse da quelle che si vedevano negli anni ruggenti dell’epidemia, perché non sono più HIV correlate. Vero. Oggi i medici più giovani che non hanno l’esperienza che abbiamo avuto noi che abbiamo vissuto gli anni caldi, se riscontrano nel paziente una criptococcosi, devono andare a vedere sui testi sacri la terapia, mentre noi all’epoca conoscevamo come l’avemaria tutte le terapie delle infezioni opportunistiche che oggi non si vedono più.

Il fatto che oggi però numerosi pazienti giungano a diagnosi tardiva ripropone queste infezioni opportunistiche come un “onda di ritorno”, e occorrono farmaci da subito potenti e rapidamente efficaci per ristabilire ordine. Proprio per questo sono persuaso che vadano riviste tutte le strategie: forse sarebbe opportuno usare al meglio all’inizio tutte le cartucce buone e poi, ottenuta una buona risposta, passare alla gestione della stabilizzazione del paziente con qualcosa di meno costoso, perché purtroppo i conti in qualche modo bisogna farli. Anche se è vero che le molecole nuove, in particolar modo raltegravir, con cui ci siamo impratichiti in questi ultimi tempi, sono veramente friendly e possono esser utilizzate abbastanza facilmente perché non danno grossi problemi e agiscono rapidamente.

Riprende quota l’opzione eradicazione o come si preferisce dire “cura funzionale”? Nel 1996 abbiamo parlato di eradicazione, poi non ne abbiamo parlato più. Negli ultimi tempi, diciamo da due anni a questa parte abbiamo ripreso a parlarne, fatto legato anche all’arrivo di queste molecole come il raltegravir, ma non abbiamo ancora dati. Di certo dobbiamo però imparare a usare al meglio questi farmaci. La terapia va lasciata in mano a persone esperte. Sono stati pubblicati numerosi lavori in questo senso, perché gestire una trentina di molecole, gestire le interazioni di questi farmaci con altri farmaci, gestire le diverse combinazioni con le combinazioni dei farmaci che verranno, ad esempio quelli per le epatiti, gestire i problemi legati all’avanzamento dell’età: tutto questo necessita di preparazione ed esperienza. Chi oggi fa il medico dell’HIV – rispetto a quello che abbiamo vissuto noi – ha in mano un armamentario terapeutico che fa pensare alla possibilità di eradicare l’HIV, e questo genera di per sè fascino ed entusiamo. Se si pensa alla storia, l’AIDS all’inizio era causa di depressione per l’infettivologo: facevi di tutto ma la gente continuava a morire. Oggi l’armamentario terapeutico ti consente di far vivere il paziente, e questo è un fatto fantastico.

Non solo: gli ultimi dati riferiti all’uso non convenzionale del farmaco, all’effetto di popolazione della terapia sono a dir poco entusiasmanti. Trattamento di popolazione e la carica virale di comunità sono la notizia del momento. È appena uscito un lavoro su Science che fa vedere la maggiore efficacia del trattamento come prevenzione rispetto a tutte le altre strategie preventive, rispetto a quelle preventive della circoncisione e anche della Prep. E comunque di queste cose al Congresso si parlerà abbondamentemente, una rivoluzione che unisce terapia e prevenzione e che parte da qui, da questo Convegno. Il problema è in un ottica di costi, perché anche in questo caso, in termini di costo efficacia, hai risultati sul lungo termine. È una strategia efficace che pone problemi di natura etica sulla necessità di disporre al Nord come al Sud del mondo di una sanità equa. Di certo ad oggi, a livello teorico, è la migliore strategia di cui disponiamo per spegnere l’epidemia. E non è solo ipotesi di modello matematico, in British Columbia i lavori di Julio Montaner lo hanno dimostrato. Il problema è se, con gli attuali chiari di luna, tutto ciò sia sostenibile.


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