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Messaggio Da Conan Sab Feb 11, 2012 4:12 am

Un articolo che spiega i principi di questo metodo, usato da molti per migliorare la composizione corporea (mazza magra - massa grassa)


Pratica comune negli atleti di potenza è l’alternarsi di due fasi con approcci dietetici differenti al fine di ottenere differenti obbiettivi. La fase definita: “Bulk” o meglio “massa” e la fase “Cut” o meglio “definizione”. Nella prima fase l’alimentazione ruota intorno al mero obbiettivo di mettere su più massa muscolare possibile, nella seconda fase si cerca di perdere i chili di grasso accumulati durante la prima fase cercando di “ritenere” al meglio la preziosa massa muscolare accumulata.
“Giusto!” direte voi. “Sbagliato!” vi rispondo. Non vi è nulla di più stupido che credere di dover mangiare tutto ciò che ci capiti a tiro per poter aumentare il tessuto muscolare. Forse non tenete conto del fatto che la capacità di sintesi proteica del tessuto muscolare è limitata e non è certo legata a quante calorie ingerite (1). L’energia assunta che supera la capacità organica di nuova sintesi di tessuto magro non farà altro che andare in riserva nei “sempre pronti” adipociti.

Leggo e parlo spesso con atleti che durante la fase di “massa” raggiungono o superano il 20% di bodyfat, follia pura, non hanno idea che il tessuto adiposo ha il medesimo comportamento del tessuto muscolare. Accanto alle fibre muscolari vi sono delle cellule “dormienti”, le cellule “satelliti”, queste vengono svegliate dal danneggiamento del tessuto muscolare e da fattori ormonali (di cui tratterò inseguito). Queste cellule satelliti, una volta svegliate, proliferano in vere e proprie fibre muscolari (anche se l'iperplasia delle miofibre umane non è mai stata provata) e/o vengono utilizzate come del "cemento" per riparare e rendere più resistenti le miofibre danneggiate.
Il tessuto adiposo funziona nello stesso modo. Quando gli adipociti sono pieni vari fattori ormonali (ne parlerò in seguito) attivano la proliferazione di cellule denominate “preadipociti” stimolandone il loro sviluppo in veri e propri adipociti pera aumentare la capacità di stoccaggio del tessuto adiposo. “Qual è il problema?” penserete voi. Il problema è che “l’apoptosi” delle cellule adipose non è mai stata dimostrata. L’apoptosi è la morte cellulare quando queste non sono più “utili” o troppo vecchie. In parole povere una volta trasformati i preadipociti in adipociti questi rimangono lì, anche se vuoti, aumentando la vostra capacità di stoccare grasso. In parole ancora più povere; non ve ne liberate più! Saranno lì ad attendere una nuova fase di massa facendovi accumulare più facilmente grasso.
Altro punto da toccare è la “ripartizione calorica” tra tessuto magro e tessuto adiposo. La ripartizione calorica indica dove vanno le calorie che ingeriamo. Questa è strettamente legata a fattori ormonali, ma, in primis, dal tipo di stress a cui sottoponiamo il nostro corpo. L’allenamento con i pesi migliora la ripartizione calorica a favore del tessuto magro grazie ad un rilascio maggiore di testosterone (2), ma, ripeto, la capacità di sintesi di nuovo tessuto magro è limitata, questa si aggira tra i 250gr o 500gr (in individui fortunati) alla settimana o meglio tra uno e due chili di pura massa magra al mese (3). Adesso, o fate uso di steroidi anabolizzanti o tutto ciò che ingurgitate che supera tale capacità di neosintesi proteica non farà altro che essere convertito in adipe.
Come procedere quindi? Nella mia carriera atletica di arrampicatore sportivo ho sempre cercato di aumentare la massa nei distretti muscolari interessati in questo tipo di attività sportiva con, al contempo, perdere il superfluo peso del tessuto adiposo. Portavo e porto avanti ricerche su questo campo chiedendomi sempre come e perché i novizi che si avvicinano per la prima volta ad un allenamento di potenza riescono a perdere massa grassa aumentando, contemporaneamente ed in modo lineare, la massa muscolare.


Limiti alla legge della termodinamica

L’idea della “caloria è una caloria” è alla base della dietistica, essa si rifà alla prima legge della termodinamica, la quale afferma che l’energia è una costante, non può essere generata dal nulla, né essere distrutta, ma può solo essere trasformata. L’energia di un sistema è trasformata in calore, in
lavoro del sistema stesso e nel cambiamento dell’energia in tutti gli elementi del sistema, ma ciò non ci permette di sapere quale è la reale distribuzione dell’energia tra i vari processi. Per far ciò dobbiamo rifarci alla seconda legge della termodinamica che introduce l’elemento “entropia”, la misura del “caos” dei vari processi. In ogni processo che ha luogo si nota un aumento dell’entropia; questa viene misurata come “calore prodotto” dal processo stesso.
Non dilunghiamoci, non credo che ciò possa interessare molto, ma mi è utile per spiegare il perché l’idea della “caloria è una caloria” non si sposa bene con un “sistema biologico”.
Il nostro sistema è un sistema aperto, ossida nutrienti ed ossigeno ed espelle anidride carbonica, acqua, urea ed altri prodotti di scarto e, naturalmente, anche calore. Secondo la prima legge della termodinamica massa ed energia vengono conservati se abbiamo un bilancio energetico positivo, ma, causa l’entropia, questi non vengono conservati totalmente. Facciamo un esempio per rendere il discorso più comprensibile (a me compreso): l’ossidazione di un grammo di glucosio in una bomba calorimetrica (strumento per misurare in contenuto energetico di un alimento) dona circa 4 calorie, ma il prodotto di questa trasformazione è totalmente calore, contrariamente, in un sistema biologico, l’ossidazione di 1 mole di glucosio dona circa 38 moli di ATP, il resto è calore, acqua ed anidride carbonica, quindi solo il 40% dell’energia contenuta in una mole di glucosio viene conservata dall’organismo, il restante 60% viene espulso come prodotti di scarto. La bomba calorimetrica è un sistema chiuso ed inefficiente, il nostro organismo è un sistema aperto e parzialmente efficiente visto che è capace di conservare parte dell’energia prodotta in una trasformazione. Questa è la discrepanza tra un sistema chiuso (calorimetria) ed un sistema aperto e questo è il motivo per cui la prima legge della termodinamica non può essere riportata ad un organismo vivente senza tenere conto dell’entropia. Altro limite risiede nel fatto che il nostro organismo è un sistema dipendente da troppe variabili, soggetto a continui stimoli esterni che lo portano ad attuare continui mutamenti. Naturalmente è vero il fatto che non possiamo creare energia dal nulla né possiamo distruggerla, possiamo prelevare energia dai vari substrati e possiamo ossidarla trasformandola in calore ed ATP. Quindi l’idea alla base del pensiero “calorie in vs calorie out” è corretta, ma contiene delle limitazioni. Riprendiamo per un attimo il discorso riguardo all’efficienza parziale del nostro organismo nella trasformazione dell’energia. L’ossidazione del glucosio ha un’efficienza (l’energia che viene conservata) di circa il 40%, l’ossidazione di un aminoacido ha un’efficienza di circa il 35%, se questo aminoacido è contenuto in una proteina l’efficienza della sua ossidazione cala a circa 27%. Quindi il ricambio proteico, paragonato alla glicolisi (ossidazione del glucosio) ed alla glicogenolisi (ossidazione del glicogeno), ha una capacità di conservare energia minore di circa 8%. Quindi è possibile, sostituendo una certa quota di carboidrati nella dieta con una quota caloricamente maggiore di proteine, consumare maggiori calorie ottenendo però il medesimo bilancio calorico: l’aumento delle proteine, difatti, aumenta il ricambio proteico tissutale e quindi la dispersione dell’energia sotto forma di calore.
Adesso però prendiamo per “assunto” l’idea della “caloria è una caloria” così da permettermi di spiegarvi perché non basta mangiare meno per perdere peso e non basta mangiare di più per guadagnarlo. Concentrandoci sulla mera perdita di peso, il bilancio calorico farà da padrone: se le calorie ingerite sono minori della nostra spesa energetica, otterremo un bilancio calorico negativo e quindi la perdita di peso; vero il contrario, ma, volendo dedicare quest’articolo al “lato atletico” della popolazione, dobbiamo tenere conto di due elementi:
1)quanto del peso perso/guadagnato è massa grassa?
2)quanto è, invece, massa muscolare?
Questi due elementi ci riportano alla “teoria” dell’effetto del partizionamento calorico datoci dall’allenamento e dai macronutrienti presenti nella dieta. L’allenamento di resistenza meccanica (i pesi) migliora il partizionamento calorico a favore della massa muscolare, lo stress indotto da tale allenamento fa si che vi sia un miglioramento della sensibilità insulinica delle cellule muscolari e quindi un miglior uptake di nutrienti; ciò è mediato da fattori ormonali e non come aumento dell’AMPK (ne parleremo in seguito), aumento del testosterone e del GH, etc etc. Questo però non basta; se la nostra dieta non comprende i vari nutrienti utili alla riparazione ed al ripristino delle scorte energetiche cellulari, l’ottimizzazione calorica andrà a farsi benedire. In questo articolo cercherò di guidarvi sulla via migliore per ottenere il massimo dalla partizione calorica.
Perdere grasso ed aumentare la massa muscolare? Possibile, fidatevi.



Proteine e "lean body mass sparing effect”

Il Santo Graal di ogni atleta: la possibilità di perdere grasso e mantenere o incrementare la propria massa magra. L’approccio più semplice sarebbe l’uso di steroidi anabolizzanti, ma si dovrà “lottare” con i vari problemi dati dall’uso di queste sostanze. Per ovviare a questa “pratica” non molto salutare ho spulciato le varie riviste scientifiche a lungo e molto “violentemente”. La domanda che mi premeva le meningi era: “Come posso, con la sola alimentazione, cambiare la mia composizione corporea senza buttarmi in cicli di massa da accumulo di adipe e cicli di definizione da perdita di forza?” La risposta era semplice: le proteine. Tutti si focalizzano sull’importanza del consumo di carboidrati esaltando le capacità anaboliche dell’insulina, molti però perdono di vista la forza dell’insulina nella lipogenesi, specialmente a livelli fisiologici elevati (come dopo un pasto ricco di glicidi). Nessuno studio riportava questa grande capacità anabolica “donata” all’insulina, nessuno. Ogni ricerca che leggevo riportava solo una sua forza anabolica sul tessuto magro data dalla capacità dell’insulina di bloccare la proteolisi (catabolismo delle proteine tissutali). La sola insulina in privazione di aminoacidi essenziali (specialmente la leucina) non mostrava alcuna capacità anabolica diretta. Decisi quindi di ricercare studi sulla sola integrazione proteica post allenamento. La luce! Bastano solo 6gr di BCAA per stimolare una netta sintesi proteica nell’immediato post allenamento, ma non si nota alcun tamponamento della proteolisi. Come si può rimediare a questo? Trovai alcuni studi riguardo alla capacità delle proteine animali di migliorare la tolleranza al glucosio, quindi le proteine, specialmente quelle di derivazione animale, hanno una intrinseca capacità di elevare il livello di insulina, ma a livelli non così elevati come dopo il consumo di un pasto ricco in carboidrati: ciò permette un’inibizione della proteolisi, ma non un blocco della lipolisi. La risposta era quindi semplice: ”Aumentare il consumo proteico” e mantenere un consumo glicidico solo ed esclusivamente come “carburante” per l’allenamento.
L’unico problema risiede nella nostra mentalità, oscurata dal paraocchi di nutrizioni le cui uniche fonti di aggiornamento risiedono in riviste come Panorama ed Eva 3000. “Dosi superiori al grammo di proteine per chilo di peso sono pericolose e portano, nel lungo tempo, a nefropatia ed insufficienza epatica”, una frase che è spesso ritrovata in molte riviste del settore.
Il problema è che io, in nessuna rivista scientifica, sono riuscito a trovare uno e dico UNO studio che provasse questa “tesi”, anzi, leggevo sempre nuove ricerche che mostravano come un aumento del consumo di proteine animale favorisse il benessere dell’organismo ed evitasse il normale deterioramento della massa magra in età avanzata. Nessuno studio riportava variazione dei valori ematici con dosi proteiche che raggiungevano i 3,2gr x kg di peso. Altri studi che prendevano come soggetti atleti di potenza notavano che, per ottenere un bilancio azotato positivo, i soggetti avevano bisogno di minimo 2,2gr di proteine per kg di peso totale. Tale fabbisogno schizzava a 3,2/4 gr per kg di peso riguardo ad atleti impegnati sia in allenamenti di potenza che in allenamenti aerobici.
Quindi non vedo fondamento in queste “elucubrazioni” dei nostri nutrizionisti italiani che continuano a consigliare un forte consumo di alimenti amidacei a individui affetti da diabete.


FABBISOGNO GLICIDICO

Non esiste un fabbisogno minimo di carboidrati, poiché non si riscontrano patologie da carenza glicidica (1). L’organismo sintetizza continuamente glucosio attraverso un processo definito “gluconeogenesi” o GNG. Attraverso questo l’organismo è capace di sintetizzare glucosio da altre fonti (lattato, glicerolo ed aminoacidi glucogenici come leucina, isoleucina, valina, glutammina, arginina). Durante una restrizione calorica/glucidica il livello ematico di glucosio è mantenuto stabile (65-80 mg/dl) attraverso la conversione di aminoacidi, glicerolo e lattato in glucosio sotto stimolo del glucagone il cui rilascio è aumentato dal calo della glicemia e quindi dell’insulina (2).
Comunque, se ci riferiamo ad un atleta notiamo che l’affaticamento durante l’allenamento è proporzionale alla deplezione di glicogeno muscolare (3,4). In un individuo sedentario la quantità di glicogeno muscolare si attesta sulle 80-110 mmol/kg, in un atleta impegnato in sola attività aerobia la quantità si alza a 110-130 mmol/kg. Durante la restrizione glicidica, come nella SKD, la quantità di glicogeno muscolare si abbassa a circa 70 mmol/kg, a tale soglia aumenta l’ossidazione dei grassi, sia a riposo che durante l’allenamento. Quando la quantità di glicogeno si abbassa a circa 40 mmol/kg la prestazione atletica ne risente. Se viene raggiunta la soglia delle 15-25 mmol/kg arriva l’affaticamento (5).


Re-sintesi di glicogeno senza assunzione di carboidrati nel post allenamento.

Dopo una sessione di allenamento anaerobio lattacido circa il 20% del lattato prodotto viene utilizzato per la re-sintesi di glucosio e successivamente di glicogeno. La conversione da lattato a glicogeno è di circa 1 mmol di glicogeno ogni 2 mmol di lattato. Se consideriamo una potenzialità di solo il 20% nella conversione da acido lattico a glicogeno possiamo comprendere che la re-sintesi di glicogeno nel post allenamento a digiuno è veramente irrisoria e non permetterebbe una seconda sessione di allenamento o comunque di mantenere un maggior volume di allenamento. Questo, naturalmente, non interessa ad un body builder i cui allenamenti durano in media 1 ora e sono seguiti da un lungo riposo, ma è essenziale per atleti di altre discipline sportive.


Consumo di glicogeno durante l’allenamento.

Il consumo di glicogeno medio durante una sessione di allenamento con i pesi con intensità di circa il 70% è, all’incirca, 7,8 mmol/kg/set (al 70% dell’intensità sono circa 6 o 8 ripetizioni a serie). Oppure 1,3 mmol/kg/ rep o ancora 0,35 mmol/ kg/ secondo (6). Naturalmente più l’intensità è elevata maggiore sarà il consumo di glicogeno, ma non credo faccia poi molta differenza. Se alzate l’intensità sarete comunque costretti ad abbassare il volume della sessione, se abbassate l’intensità sarete capaci di mantenere un volume maggiore nella seduta di allenamento. Facciamo 2 calcoli così da avere una linea guida. La vostra scheda di allenamento giornaliera prevede 6 serie per 4 diversi esercizi al 70% di 1RM (il 100% di 1 RM sta a significare l’utilizzo di un peso che vi consente di fare un’unica, massima, ripetizione):7,8 x 6 serie = 46,8 mmol di glicogeno consumate durante un singolo esercizio, 46,8 x 4 esercizi = 187,2 mmol di glicogeno consumate durante la sessione.
Adesso dovete ricordare che il consumo medio è 7,8 mmol / KG /set. Mettiamo che in media reclutate circa 2 kg di tessuto muscolare ad esercizio: 187,2 x 2= 374,4 mmol di glicogeno consumate durante la seduta. Arrotondiamo a 375 mmol. Non amo complicarmi la vita.
Non mi sono dimenticato, vi interessa sapere quanti grammi di carboidrati sono necessari, alla fine delle mmol non credo vi importi molto: 1 gr di carboidrati produce circa 5,56 mmol di glicogeno, quindi basta dividere le nostre mmol x 5,56. Avete consumato circa 375 mmol di glicogeno, quindi, 375: 5,56 = 75 gr di carboidrati consumati in media durante la vostra seduta.
Al fine di rendere il tutto più semplice diciamo che il consumo medio di glicogeno durante il “workout” è di circa 1,8-2,2 gr x kg di massa magra. Il momento in cui assumere la vostra quota di carboidrati sta a voi deciderlo, sperimentate come meglio vi trovate. Sappiate però che se assumete troppi carboidrati pre-wo potreste provare un brusco calo della glicemia visto che la vostra tolleranza al glucosio è alterata. Consiglio di consumare circa il 40% dei “vostri” carboidrati nel pre allenamento, il restante 60% post wo. Io preferisco assumere la mia “dose” glicidica solo nel post allenamento per mantenere ed adattare al meglio l’organismo all’ossidazione dei FFA (free fatty acid, acidi grassi liberi) ed alla “conserva” di glicogeno durante il work out.
Se però notate che con un minimo di glicidi riuscite ad allenarvi meglio e più pesantemente optate per questa strada, il ripristino di glicogeno nel post allenamento rimane comunque elevato anche se i carboidrati sono stati consumati solo nel pre allenamento (8).
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Messaggio Da Conan Sab Feb 11, 2012 4:25 am

Why your body hate you?

Potendo fare una stima delle domande che mi vengono poste da chi dona fiducia al mio lavoro, potrei dire che la percentuale più alta è occupata da: “Sono stallato, oltre il 10% di bf non riesco a scendere, ho provato di tutto, keto, psmf, ma non mi smuovo” o, aggiungerei io, “mi ritrovo in situazioni di binge eating incontrollabili”. Il vostro corpo vi odia, ve ne siete resi conti?

Credete, erroneamente, che basti il controllo, la volontà, ma non pensate che la volontà appartenga al nostro encefalo in costante collegamento con l’ipotalamo che, oltre varie funzioni, alloggia anche il cosiddetto “centro della fame”, controllore e regolatore del nostro stato di nutrizione, del nostro bilancio energetico. Sapete qual è il vero problema? Il controllo dello stato energetico o “controllo omeostatico” non è il solo a regolare il nostro bisogno di cibo (“fame” in termini poveri). Abbiamo un nuovo “controllo”, nuovo perché ci appartiene solo adesso. La nostra società, la nostra cultura, oggi ci offre una varietà ed abbondanza di cibi; che piacciano o no è solo soggettivo. “Piacere”, ripetete questa parola, questa definisce al meglio questo nuovo controllo non omeostatico, o meglio definito “controllo edonico”. Cibi ricchi di zuccheri e grassi ci danno piacere agendo sulla nostra chimica cerebrale, sui nostri neurotrasmettitori: il piacere o meno verso un determinato alimento è solo frutto della differenza individuale nella chimica cerebrale, nell’equilibrio dei propri neurotrasmettitori.
Tutto questo dove porta? Il nostro senso di fame, il nostro bisogno di cibo ha perso la sua “istintività”, la sua naturalità. Cibi “buoni”, che donano piacere, sono consumati senza un vero e proprio bisogno energetico. Il nostro corpo non si è adattato all’abbondanza di cibo, non ha creato difese contro l’accumulo soprafisiologico di adipe (obesità). Contro il digiuno è molto, ma molto più preparato, mentre la lotta contro l’eccesso di cibo è persa in partenza, o comunque non ha difese da schierare. Ciò porta al nostro attuale aumento della percentuale di persone obese.
Questo preludio è solo per farvi capire che non basta un controllo conscio dell’alimentazione: il controllo edonico può essere bloccato dalla ragione (cosa che fanno quasi tutti gli atleti seguendo una rigida “alimentazione naturale”), ma il controllo omeostatico, purtroppo, non possiamo regolarlo a meno che non facciamo utilizzo di droghe, solo queste possono sopprimerlo o stimolarlo; non è il mio ideale di lavoro fare il pusher, quindi, direi, di lasciar stare le droghe, credo siate tutti d’accordo.

Set Point

Definiamo queste due parole: “set point” o “punto fisso”. Quando lo riportiamo al nostro organismo potremmo definire il set point come il fine del percorso dell’omeostasi che, giornalmente, fanno le nostre cellule. Bene, entriamo più nello specifico e volgiamoci alla composizione corporea, limitandoci alla visione bicompartimentale (massa magra e massa grassa, tralasciando ciò che comprendono i due compartimenti). Nella composizione corporea (rapporto tra massa magra e massa grassa) il set point è l’equilibrio tra i due compartimenti, equilibrio che l’organismo cerca di tenere il più possibile stabile. Sembra facile, sarebbe perfetto se fosse così: “Il mio set point è al 12% di massa grassa, se mangio troppo dissipo il superfluo sotto forma di calore e non ingrasso”. Questa è la prima considerazione che mi verrebbe in mente se quel lunatico di scrittore mettesse qui un punto, ma il lunatico non rende le cose semplici né piacevoli. La nostra evoluzione ci ha donato una grande capacità di resistere alla privazione totale di cibo (ricordate il discorso chetogenesi e preservazione del glicogeno e delle proteine tissutali: il digiuno, nel breve tempo, è la strategia più efficace per preservare la massa muscolare), ma non ci ha fatto concessione di difese contro l’ipernutrizione e la grandissima disponibilità di cibo dei tempi odierni. All’organismo non piace essere grasso, l’obesità distrugge del tutto il nostro equilibrio, non ci porta certo ad una vita più longeva. Infatti, nei primi giorni di ipernutrizione si nota un’attivazione delle proteine disaccoppianti ucp2 e 3 nel muscolo e nel fegato rispettivamente, proteine che non fanno altro che disperdere un po’ dell’eccesso delle calorie ingerite come calore, bloccando la respirazione cellulare nei mitocondri e quindi la sintesi di ATP. Per farvi un esempio: è come se voi bruciaste tutti i soldi che tenete nel portafoglio. Alla fine vi ritroverete più poveri, ma senza aver acquistato nulla, quindi lavorerete di più per risanare il deficit monetario. Questo è ciò che fa il nostro corpo durante le prime fasi di ipernutrizione (oltre all’attivazione del sistema nervoso simpatico che porta ad un maggior dispendio calorico forzandoci ad aumentare il “movimento volontario”); ma se l’ipernutrizione si prolunga troppo e tutte le riserve indispensabili (glicogeno epatico e muscolare in primis, poi i trigliceridi intramuscolari) sono sature, allora il corpo non può far altro che rimpinzare i simpaticissimi adipociti e quindi: ingrassiamo. Logicamente è molto più facile perdere quel quantitativo di adipe che supera il nostro naturale set point di grasso, ma scendere sotto è una guerra durissima. Possiamo vincere alcune battaglie e tenere una bassissima % di grasso, ma solo per poco tempo, la guerra è sempre vinta dal nostro corpo, (un esempio sono le abbuffate post gare dei bodybuilders), i centri della fame non si possono placare, se non utilizzando droghe.

Cosa definisce il set point nella composizione corporea.

Difficile dare una risposta perché le variabili sono molteplici. Senza toccare il terreno dell’obesità, patologia che, spesso, è il risultato di errori genetici che portano ad uno squilibrio di ormoni e neurotrasmettitori, soffermiamoci solo sul set point in un soggetto sano. Il set point di adipe o meglio, il rapporto tra massa muscolare e massa grassa è un cammino lento che, come l’omeostasi (equilibrio) ormonale, ha inizio durante lo sviluppo e fine verso l’età adulta (anche se vari fattori potrebbero alterarlo anche raggiunta la totale maturazione corporea). Semplificando il discorso: il vostro set point attuale è frutto di quanto eravate grassi (o magri) durante l’infanzia, la pubertà e l’adolescenza. Un ragazzo che, sino all’età adulta, ha avuto una % di BF sul o superiore al 15% avrà serie difficoltà a scendere sotto il 10%; ciò dipende dalle modificazioni ormonali che comporta l’iperplasia (aumento di numero) e l’ipertrofia delle cellule adipose, modificazioni che toccano in primis la zona di controllo ipotalamica con raggiunta di un certo equilibrio ormonale. Perciò, un corpo abituato ad avere un certo numero di cellule adipose e, quindi, un certo livello di produzione e rilascio di leptina (primo ormone di controllo dello stato nutrizionale/energetico) incontrerà forti difficoltà cercando di variare l’omeostasi verso un piano più basso. Ciò non è impossibile, abbisogna solo di sacrifici maggiori rispetto a chi ha sempre tenuto un set point più basso.
Una metodica che permette una variazione “a vita” su un livello di adipe più basso è l’incremento della massa muscolare con minimo o nessuno incremento della massa grassa: ciò permette, alla medesima quantità di grasso, di avere una % di bf, un set point di adipe più basso.
Il lavoro è lento (se non si usano “scorciatoie” farmacologiche), ma permette di raggiungere il set point sperato. Questa è definita “ricomposizione corporea”, cosa molto rapida in chi è un novizio nell’allenamento.
Non mi soffermerò sul piano medico della descrizione della regolazione del centro della fame ipotalamico, argomento che tratterò in un prossimo articolo, visto che il suo sviluppo è e sarà molto complesso. Rimaniamo sul piano pratico: l’approccio dietetico che propongo è mirato a chi ha raggiunto una % di massa magra sotto i 12 punti e vuole scendere ad un livello ancora più basso in modo naturale. E’ un piano dietetico che richiede abbastanza sacrifici e molta forza di volontà (come ho prima accennato, combattere contro il proprio corpo non è cosa facile).
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Messaggio Da Conan Sab Feb 11, 2012 4:38 am

The thrifty genotype and the feast/famine cycle

Il genotipo economo, questa è la traduzione di “thrifty genotype”, è una nuova teoria riguardo alla nostra evoluzione: la capacità del genotipo economo nel conservare l’eccesso calorico dei periodi di “feast” (ipernutrizione) ha permesso la sopravvivenza della nostra specie. Il problema però sorge adesso: l’abbondanza di cibo, la possibilità di procurarselo 24 ore su 24 con un quasi nullo dispendio energetico ha creato uno squilibrio nel ciclo “feast/famine” (ipernutrizione/digiuno) ed ha dato vita ad una sempre più alta percentuale di individui sovrappeso o, peggio, obesi e di patologie correlate all’obesità.

Come detto precedentemente, l’evoluzione umana non ha creato difese contro il sovrappeso, semplicemente perché non ve ne era bisogno: i periodi di ipernutrizione duravano pochissimo ed erano seguiti da periodi di digiuno e prolungata attività fisica (la caccia e/o la raccolta). Con l’arrivo dell’agricoltura e la fine del nomadismo, la spesa energetica per procacciarsi il cibo raggiunse livelli molto bassi, più elevati rispetto a quelli odierni, ma pur sempre minori dell’era in cui eravamo solo raccoglitori/cacciatori e “nomadi stagionali”. Tornando al genotipo economo, questa evoluzione ha permesso una migliore economizzazione delle riserve energetiche, in particolar modo delle riserve muscolari di glicogeno. Un esempio di genotipo economo lo possiamo riscontrare negli atleti avanzati di sport di resistenza. La loro capacità ossidativa dei lipidi è maggiore rispetto ad atleti di altre categorie e ciò permette un risparmio del glicogeno muscolare. Inoltre, la loro capacità di gluconeogenesi epatica è anch’essa superiore e ciò risulta, nuovamente, in una migliore preservazione del glicogeno muscolare per sforzi intensi e di breve durata.
Dunque, il genotipo economo, vivendo tra periodi di digiuno e caccia e periodi di ipernutrizione si evolveva ottenendo una partizione calorica migliore, una capacità di stoccaggio di glucosio come glicogeno muscolare maggiore rispetto agli individui la cui evoluzione non ha intrapreso questa strada. Di contro, l’economo, possiede anche una capacità di stoccaggio in adipe superiore quando le riserve di glicogeno, sia muscolari che epatiche, sono sature, ma, sottolineo, in primis avverrà il ripristino del glicogeno e ciò permette al genotipo economo di avere una capacità di sfruttamento energetico migliore e quindi una migliore capacità atletica.

La pratica, "Cut diet"

Molto semplice: mira a ricreare la nostra evoluzione alimentare mediante l’alternanza di periodi di digiuno a periodi di ipernutrizione ma, al fine di riuscire a mantenere ed abbassare ulteriormente la propria percentuale di massa grassa, il periodo di ipernutrizione è molto ridotto; ridotto a sole 5 o massimo 8 ore ed abbastanza intenso. Ma perdersi in parole è inutile, andiamo direttamente alla pratica con le due fasi del piano dietetico:

2 giorni e 1/2 di PSMF
5 ore di refeed o 8 ore se andate tardi a dormire.
PSMF: “protein sparing modified fast” (digiuno codificato a risparmio proteico), dieta prescritta per forti casi di obesità. Sarebbe una dieta chetogenica priva di grassi, il problema è: negli individui obesi o fortemente sovrappeso la mobilizzazione dei grassi corporei è tale da permettere l’entrata in chetosi e la massima preservazione della massa magra, ma quando parliamo di atleti con una % di massa grassa molto bassa, la mobilizzazione dei grassi corporei è quasi nulla (causa una maggiore espressione di recettori adrenergici alfa 2 nel tessuto adiposo essenziale che, attivati dall’adrenalina, inibiscono del tutto la lipolisi) e ciò comporta una continua ricerca di glucosio da parte dell’organismo e quindi non avremo alcuna preservazione della massa magra grazie all’insulino resistenza (che in restrizione calorica è cosa utilissima al fine di non catabolizzare il muscolo) data da un alto livello di acidi grassi liberi nel sangue. Vi chiederete dunque: ” perché proporre questo tipo di approccio ad atleti con molto bassa bf?”. La risposta è semplice: una dieta chetogenica in soggetti con bassa bf ha il medesimo effetto di catabolismo proteico di una psmf, tranne che si stia in bilancio calorico positivo e consumando tanti grassi da compensare l’insufficiente lipolisi di quelli corporei e, come capirete, non si avrà più alcun dimagrimento senza deficit calorico. Inoltre, una dieta chetogenica che quindi porti alto il livello ematico degli acidi grassi liberi comporta una certa resistenza all’insulina ed un calo della tolleranza al glucosio, cosa che si protrae anche nelle prime ore del refeeding e non ottimizza il partizionamento calorico verso la massa muscolare.

FASE PSMF:

2,2gr di proteine x kg di lbm
Non più di 30gr di carboidrati al giorno e solo da verdure fibrose.
Non più di 20gr di grassi di cui, la metà, da un mix di polinsaturi da olio di pesce e/o olio di lino e monoinsaturi da olio di oliva, mandorle e noci (arachidi e burro di arachidi evitateli in questa fase).

FASE REFEED:

Durata dalle 5 alle 8 ore, da uno a 3 pasti, come meglio preferite. Ricordate che deve o devono essere l’ultimo o ultimi pasti della giornata prima di coricarsi.

CARBOIDRATI:

6/8 gr x kg di lbm per individui endomorfi
8/10gr x kg di lbm per individui meso ed ectomorfi
GRASSI: non più di 1gr x kg di lbm e preferibilmente da monoinsaturi (oliva, mandorle, noci, arachidi..etc), ma se vi prende la voglia di una pizza ai quattro formaggi, nessuna paranoia, ci può anche stare, ma evitate di aggiungere altri grassi.

PROTEINE: 1,8gr x kg di lbm calcolando solo quelle da fonti animali (non contate quelle che vengono dalle fonti di carboidrati che consumerete).

Facciamo un esempio: Lunedì, martedì e mercoledì sino al pranzo starete in fase PSMF. Dopo il workout di mercoledì pomeriggio inizierete la fase refeed. Giovedì, venerdì e sabato sino a pranzo fase psmf. Sabato pomeriggio, dopo il workout, fase refeed. Nel caso in cui sabato non vi alleniate limitate la fase refeed ad un unico pasto libero nella sera. La domenica concedetevela come giorno libero, ma sempre controllato, cibo pulito e nessuna abbuffata. Nel caso in cui la domenica aveste in programma un pranzo o una cena con i parenti, evitate la fase di refeed di sabato e spostatela a domenica (anche se non vi allenate).



Regolazione del bilancio energetico

Nel 1995 lo studio di Kaiyala portò alla luce prime prove di regolazione del consumo di cibo attraverso attivazione di alcuni circuiti neuronali. Andando avanti nel tempo furono scoperti vari segnali ormonali che influenzano i “feeding patterns” (periodi di alimentazione) umani. Adesso sarete in pochi a non conoscere la parola “leptina”; oramai è come un fantasma che vaga in molti dei discorsi tra bodybuilders. Non si sa molto su questa Leptina o, almeno, pochi si concentrano a studiarla e comprenderla e non molti sono a conoscenza dell’importanza che questo ormone ha sul nostro stato psico-fisico.

Regolazione del bilancio calorico

Lo studio di Schwarts and Baskin del 1999 fa luce su come il sistema nervoso centrale controlli il consumo di cibo attraverso due vie effettrici (i nervi effettori comandano lo svolgimento di un determinato compito in seguito ad uno stimolo ricevuto dall’esterno o dall’interno: un esempio sono le placche neuromotrici che stimolano la contrazione del muscolo). Alcuni neuropeptidi e monoamine sintetizzate e rilasciate attraverso vie nervose sono capaci di modificare, una volta raggiunto il cervello, il consumo di cibo e la scelta della tipologia di alimenti.
Le due vie effettrici possiamo indicarle come:

“sistema effettore anabolico”
“sistema effettore catabolico”
Sistema effettore anabolico

Come definisce la parola stessa, “anabolico” indica la capacità di raggruppamento di piccole molecole in unità più grandi, quindi, la capacità di conserva dell’energia.
Il sistema effettore anabolico inibisce:

L’attività del SNS (sistema nervoso simpatico)
L’attività del SNS nel BAT (tessuto adiposo bruno) e quindi inibisce la termogenesi facoltativa che porta una certa perdita energetica solo sotto forma di calore.
Questa inibizione del SNS implica:

Stimolazione dell’attività della LPL (lipoprotein lipase) deputata allo stoccaggio dei grassi nelle cellule adipose
Dunque, lipogenesi
Aumento della produzione e rilascio di insulina
Aumento di produzione e rilascio di glucocorticoidi ( cortisolo e suoi pro-ormoni).
Dunque, questo sistema effettore stimola solo ed esclusivamente la conserva dell’energia in eccesso, inibendo quasi del tutto la dissipazione calorica (inibendo la termogenesi, come detto prima, si blocca la perdita del surplus calorico attraverso la produzione di calore corporeo).
Per il momento non tratterò gli ormoni “fautori” dell’attivazione di questa via neuronale, ma sappiate che digiuno prolungato, perdita di peso, diabete di tipo 1 (quindi anche la protratta carenza di glucosio) portano all’attivazione di tale via nervosa e preparano l’organismo allo stoccaggio del surplus calorico ed aumento del “bisogno di cibo”.


Sistema effettore catabolico

Come potete immaginare questo sistema funziona in maniera totalmente opposta a quello anabolico. Il sistema effettore catabolico inibisce:

La LPL e quindi la lipogenesi
La sensibilità insulinica muscolare e adiposa e quindi inibisce la proteolisi e diminuisce il consumo di glucosio.
Produzione e rilascio di insulina
Stimola:

La HSL (hormone sensitive lipase) la quale stimola l’ossidazione dei grassi e quindi la lipolisi.
L’attività del SNS e quindi il rilascio di adrenalina, noradrenalina e dopamina
L’attivazione del BAT e quindi il dispendio energetico attraverso la termogenesi
Diminuisce la produzione di glucocorticoidi.
In sintesi: esso è il sistema della “caccia e fuga”, comporta la conserva del glicogeno muscolare per massimizzare le attività ad alta intensità, blocca la proteolisi (catabolismo proteico) ed aumenta la produzione di energia derivata dai grassi. Questo è il sistema che, durante la nostra evoluzione ancestrale, ci ha permesso di superare lunghi periodi di digiuno durante i quali l’attività fisica (caccia, raccolta, fuga) era molto intensa; per rifarci a qualche mio articolo precedente; questo sistema è quello che viene attivato durante una dieta chetogenica, quando vi è una forte carenza di glucosio, ma non protratta per troppo lungo tempo.

Qualche chiarimento prima di passare a discorsi ancor più noiosi:
I due sistemi effettori non funzionano come comparti stagni: se si attiva uno non vuole dire che l’altro venga del tutto disattivato. Un esempio è l’attività fisica: l’allenamento attiva il sistema effettore catabolico durante il workout, ma una volta terminato ed aver consumato un pasto avremo l’attivazione del sistema effettore anabolico, con leggere variazioni che non sto adesso a trattare altrimenti mi dilungherei troppo. I due sistemi lavorano in sinergia al fine di permettere conserva ed ottimizzazione dell’utilizzo dell’energia assimilata. L'estremizzazione, quindi la preponderanza di uno sull’altro sistema avviene solo in certe situazioni come il digiuno prolungato, il sovrallenamento, stati di malattia, diete a forte restrizione di carboidrati, prolungato deficit calorico ed altre estreme circostanze.


Leptina: il “mastro regolatore”

Uno studio di Kennedy di circa 55 anni fa avanzò l’ipotesi che esistesse un ormone secreto dalle cellule adipose che comunicasse all’ipotalamo lo stato energetico dell’organismo. L’idea dell’esistenza di questo ormone (o meglio “citochina”), denominato leptina, fu confermata in seguito da successivi studi.
La leptina (dal greco "leptos", "magro" ) è una citochina prodotta e rilasciata dalle cellule adipose. Proprio così: per tutti quelli che credevano che l'adipe, il grasso, fosse solo una massa inerte! Gli adipociti producono una moltitudine di diverse citochine, alcune non ancora ben studiate, la leptina è solo una tra le tante. Difatti, cambiamenti nella massa grassa vengono trasmessi al SNC: diminuiti livelli di leptina “comunicano” un impoverimento delle riserve energetiche. Il SNC risponde a questo diminuendo l’attività metabolica, aumentando il consumo di cibo e stimolando enzimi deputati a promuovere lo stoccaggio di adipe. Di contro, un aumento del livello di leptina porta un aumento del metabolismo, diminuzione del consumo di cibo, ristabilisce l’equilibrio ormonale (ormoni tiroidei ed androgeni tendono a diminuire in risposta a bassi livelli di leptina), stimola enzimi deputati alla lipolisi ed allo stoccaggio di glicogeno.


La domanda nasce spontanea: “Perché allora si ingrassa?”

Livelli elevati di leptina protratti per lungo tempo portano ad una desensibilizzazione dei recettori Ob-Rb (recettori della leptina ad isoforma lunga, fautori dell'attività di questa) nell’ipotalamo e ad una sottoregolazione del suo trasporto attraverso la barriera emato-encefalica (barriera che divide il cervello dal tessuto sanguigno).Questo viene notato negli individui obesi i quali hanno elevatissimi livelli ematici di leptina, ma tremendamente bassi all'interno del fluido cerebrospinale (segno di impossibilità di trasporto dell'ormone attraverso la barriera emato-encefalica). In questi soggetti iniezioni di leptina non riescono a migliorare il loro "disequilibrio" poiché i recettori Ob-Rb, situati nell'ipotalamo, non possono essere né raggiunti dall'ormone né legarsi ad esso a causa della loro desensibilizzazione. In parole povere l’organismo risponde “zittendo” questo aumento dell'ormone e ciò comporta una fine delle attività positive che ha questa citochina sul nostro corpo. Questo, come detto prima, è il caso dell'obesità in cui elevatissimi livelli di leptina non vengono "sentiti" dall'ipotalamo; le cause sono di natura genetica come: deficit di trasportatori della leptina, assenza dei recettori OB-rb o loro totale insensibilità verso l'ormone.
Di contro, in soggetti con deficit genetico di Ob-RNA, gene che codifica la produzione di leptina, assunzioni di questa per via endovenosa portano importanti miglioramenti nella loro condizione.
La leptina è quindi il mastro regolatore delle funzioni primarie dell'organismo; se comunica una perdita energetica ogni via metabolica viene rallentata, se segnala un "bilancio" calorico positivo avverrà tutto l'opposto.

Set point

Tutto dipende dalla leptina: quando le cellule adipose iniziano a svuotarsi anche la produzione di leptina diminuisce sino ad arrivare ad un punto in cui l'organismo percepisce questa "mancanza" e va in allarme. Rallenta ogni processo metabolico, aumenta il senso di bisogno di cibo e si prepara alla conserva di ogni eccesso energetico. La leptina e neurotrasmettitori che rispondono alla sua carenza sono i responsabili della difficoltà a scendere e mantenere una bassa % di massa grassa, ma tutto parte dalle cellule adipose, da quel tessuto che pensavamo utile solo come magazzino e che invece si mostra ancora più bastardo di quanto credevamo.
Il lato positivo comunque esiste: durante una dieta ipocalorica svuotiamo le riserve di grasso ed otteniamo, oltre un fisico più sensuale, un calo dei livelli, sia ematico che encefalico (nel cervello), della leptina; questo comporta un aumento sia dell'espressione che della sensibilità dei recettori Ob-Rb e dei trasportatori di questa cara ed infima citochina.

A cosa porta tutto ciò?

Durante una fase di ricarica di carboidrati o comunque un periodo di ipernutrizione avremo un'impennata dei livelli della leptina. Chiarisco che non bisogna accumulare grasso per aumentarne sintesi e rilascio; la leptina risponde ad un aumento della glicemia, quindi ad una maggiore disponibilità di glucosio ed all'attivazione della via metabolica dell’esosamina (non mi soffermo sulla biochimica: la via dell’esosamina è la via metabolica attivata quando l'organismo si trova a far fronte ad un eccesso energetico proveniente da aminoacidi e glucosio al fine di convertirli in trigliceridi). Questo aumento della leptina, abbinato ad una maggiore sensibilità ed espressione dei recettori Ob-Rb, comporta una migliore "comunicazione" dei suoi messaggi benefici riguardo alla perdita di grasso, lo stoccaggio di glicogeno nel muscolo e la ripresa di un certo equilibrio delle assi ormonali tiroidee e gonadiche; in parole povere avremo una migliore partizione calorica verso il tessuto magro.
Torniamo un momento ai due sistemi effettori descritti in precedenza. La leptina li governa entrambi poiché i neuropeptidi che attivano le due vie nervose efferenti rispondono ad essa.
Diminuzioni dei livelli di leptina stimolano il sistema nervoso effettore anabolico inibendo quello catabolico; di contro, all'aumento dei suoi livelli avviene l'opposto: avremo inibizione del sistema effettore anabolico e stimolazione del catabolico.
Sia chiaro: non prendete i termini "anabolico e catabolico" con le solite e monotone definizioni "da palestra". In questo caso "anabolico" indica conserva energetica e non "aumento di massa muscolare". L'aumento dei livelli della leptina tende a stimolare la ritenzione di azoto, la sintesi proteica e la preservazione della massa magra, ma questo solo nei primi momenti. Come ho detto in precedenza l'organismo non ama gli sprechi e se non vi fosse la sottoregolazione e desensibilizzazione dei recettori OB-Rb lo spreco energetico sarebbe immenso e certamente non saremmo sopravvissuti sino ai tempi odierni.

Ogni ormone, neuropeptide deputato al controllo del senso di fame ed alla "velocità metabolica" dipende dalla leptina

La leptina regola le assi ormonali tiroidee e gonadiche.
In sintesi: bassi livelli di leptina portano a bassi livelli di T3 e bassi livelli di testosterone ed estrogeni. Inoltre il rilascio di dopamina è direttamente correlato al livello encefalico di leptina. Animali lasciati a digiuno per lungo tempo mostrano una certa dipendenza da droghe che vadano a stimolare aumenti della concentrazione di dopamina.
Tutto questo per far capire il motivo della difficoltà a scendere sotto determinate % di grasso. Una volta raggiunto un così basso livello di sintesi e rilascio di leptina, (causa lo svuotamento degli adipociti) il bisogno di cibo, l'astenia data da calo del metabolismo, il blocco della lipolisi, l'aumento della proteolisi e la perdita totale della libido (bisogno sessuale), divengono pulsioni tanto forti da non poter essere controllate. La stessa CCK (colecistochinina), prodotta dallo stomaco in risposta ad un pasto ricco in grassi e proteine e che, di norma, aumenta il senso di sazietà, non ha alcun potere se la leptina è bassa, se il controllo primario non dà il "benestare".

Passiamo al livello pratico adesso; vi sono alcuni metodi per aggirare questo feedback della leptina:
Un aumento dell'insulina e dell’adrenalina migliorano il trasporto della leptina attraverso la barriera emato-encefalica (l'efficacia delle ricariche a base di carboidrati è proprio per questo).
Sostanze che stimolino o fungano da dopamina ingannano l'organismo, anche se la leptina è bassa e ristabiliscono un certo equilibrio anche durante una dieta fortemente ipoenergetica e protratta per lungo tempo.
Come ho precedentemente accennato, un modo per sfruttare al meglio i benefici della letpina è alternare periodi di dieta ipocalorica (maggiore sarà il deficit calorico, più breve sarà il tempo da passare in dieta prima di una ricarica) a non più di 36 ore di ricarica, a base quasi esclusivamente di carboidrati (vedi "bodyrecomposition project").
L'uso di farmaci che stimolino il sistema della dopamina, l'uso di efedrina e altri stimolanti che aumentino il livello di adrenalina e noradrenalina possono aiutare a "zittire" un poco il calo della leptina.
Ricordate: prima o poi, che si usino droghe o meno, le pulsioni della sopravvivenza diverranno tanto forti da essere incontrollabili. Evitate di buttarvi in diete estremamente restrittive solo perché avete fretta: quello che otterrete, dopo, sarà solo di non riuscire a mantenere ciò che avete guadagnato (o perso a seconda del punto di vista). L'istinto governa, per quanto la razionalità possa controllarlo, ma lui governa!

La regolazione del bilancio energetico, la pratica

Nella prima parte ci siamo soffermati e dilungati su biochimica e fisiologia di questo sistema. Adesso vorrei dar inizio alla messa in pratica di queste parziali conoscenze trattate prima, al fine di sfruttare ed anticipare questa "fine opera di regolazione" del nostro corpo.


Nutrizione e leptina
Non solo la quantità di grasso che ci portiamo dietro, ma anche e con forte influenza, i nutrienti giocano un ruolo chiave nel grado di sintesi e rilascio di leptina. Precedentemente avevo accennato alla via metabolica dell’esosamina come forte "stimolante" alla produzione di leptina. Il prodotto finale di questa via, la UDP-N-acetil glucosamina, sembra essere il messaggio primario del "fed state" ( stato di nutrizione, bilancio calorico positivo). Come è logico, avremo in risposta un aumento del livello di leptina, ma andiamo un po’ più nello specifico.
Circa il 2 o il 3 % del glucosio che entra nelle cellule subisce un trasporto ( o "shift" in termini tecnici) verso la via metabolica dell’esosamina: la quantità di UDP-N-acetilglucosamina prodotta da questa via indica lo stato energetico dell'organismo. La stessa insulina, che sembra non avere un ruolo diretto sulla leptina, ne stimola produzione e rilascio forzando l'entrata del glucosio in questa via. In sintesi: l'uptake ed il metabolismo del glucosio sono i fattori primari nel regolare il livello di leptina ematico. Studi nei quali venivano usati farmaci inibitori della glicolisi (ossidazione del glucosio) bloccavano il normale aumento di produzione di leptina negli adipociti esposti al glucosio. Da ciò si comprende come il metabolismo di questo zucchero sia essenziale in tale sistema di regolazione.
Glucosio, ricordiamo bene, non fruttosio; quest'ultimo si è visto aumentare i livelli di leptina nelle cavie solo dopo 2 settimane. Questo, tradotto in velocità metabolica umana, corrisponderebbe a circa 1 mese e mezzo. I polimeri del glucosio, come l'amido, sembrano rallentare il picco della leptina, lo si può spiegare osservando la forte "impennata insulinica" in risposta al solo e semplice glucosio e ciò implica una maggiore entrata dello zucchero nella via dell’esosamina.
I grassi, non le persone sovrappeso, i lipidi, giocano un ruolo "indiretto". Mi spiego: una dieta che comprenda circa 80% delle calorie dai lipidi e solo il 3% dai carboidrati tende ad abbassare la produzione della nostra cara citochina, ma se ci ritroviamo in uno stato di surplus calorico in cui carboidrati e grassi si spartiscono un’equa quota delle calorie, avremo un picco leptinico simile a quello osservabile in eccesso calorico da solo glucosio. Un aumento degli acidi grassi liberi sposta il prodotto del metabolismo del glucosio, il fruttosio-6-fosfato, dalla glicolisi alla via dell’esosamina; ecco l'effetto indiretto, ma solo se una "fetta" abbastanza grande del surplus energetico sia lasciata ai carboidrati.
Son certo che vi sorga spontanea qualche domanda riguardo alle diete "low carbs" (non chetogeniche che richiedono un discorso a parte).
Durante una fase di dieta da "cutting" (dieta ipocalorica per chi non è del settore), quindi con un certo grado di deficit calorico, mantenere una quantità di glicidi, diciamo intorno ai 3 o 4 grammi per chilo di peso, permette di rallentare il fisiologico calo della leptina. Questo è comunque controproducente se si cerca l'ottimizzazione della perdita di adipe e del mantenimento della massa muscolare. Tenere bassi i livelli di leptina, quindi spingersi verso un forte deficit energetico e tenere l'introito di glicidi il più basso possibile (senza entrare in chetosi, quindi circa 2,2 gr di carboidrati per chilo di massa magra), permette, come detto in precedenza, un aumento della sensibilità e dell'espressione dei recettori OB-Rb; una migliore risposta, quindi, quando entreremo nella fase "refeed" (ricarica di carboidrati).
Non è solo questo il motivo del consumare pochi carboidrati durante il "cut". Mantenere bassa la glicemia (livello di glucosio nel sangue) permette un aumento del rilascio di acidi grassi dal tessuto adiposo. Un elevato livello di FFA (free fatty acids, acidi grassi liberi) aumenta la resistenza insulinica. Apro una piccola parentesi per spiegare cosa si intende con "sensibilità/resistenza all'insulina".

Sensibilità insulinica

"Sensibilità insulinica" si riferisce a come i tessuti del nostro corpo rispondono all'ormone insulina.
L'insulina è un ormone "di conserva", permette l'ingresso del glucosio nelle cellule; più precisamente; l’insulina, legandosi ai suoi recettori di membrana, permette che i trasportatori del glucosio (proteine GLUT) attraversino la membrana cellulare. Questo avviene principalmente nel tessuto muscolare ed adiposo i quali hanno la maggior concentrazione di proteine GLUT-4 (trasportatori di glucosio dipendenti dall'insulina), altri tessuti, come il cervello, il pancreas, il fegato non hanno bisogno di alcun ormone per accaparrarselo, possiedono dei trasportatori attivati solo in risposta al livello di glucosio nel sangue.
La resistenza all'insulina, di contro, porta ad un maggior rilascio di questo ormone al fine di contrastare la bassa concentrazione di trasportatori GLUT-4, la bassa espressione e la scarsa sensibilità dei suoi recettori. Chi possiede un certo grado di resistenza rilascerà concentrazioni maggiori di insulina in risposta ad un uguale livello glicemico di chi avrà una maggiore sensibilità.

La resistenza all'insulina comporta:
Maggiore ossidazione dei grassi a scopo energetico.
Mantenimento di una certa "stabilità glicemica" (non si avranno "crolli" da crisi ipoglicemiche).
Preservazione del glicogeno muscolare.
Migliore conservazione della massa muscolare (l'altalenanza dei livelli glicemici ed insulinici, in deficit calorico, porta una maggiore ossidazione delle proteine al fine di stabilizzare la glicemia).
Come potete capire, mantenere un certo grado di resistenza insulinica porta vantaggi sia durante la fase ipocalorica sia nel periodo di refeed.

The refeed: la "ricarica di carboidrati"

Passiamo alla pratica adesso. Ricordiamo come il metabolismo del glucosio giochi un ruolo primario in questa fase, quindi, proteine, grassi, fruttosio ed alcol hanno poca o quasi nulla valenza. Concentriamoci solo sul glucosio. Ricordate anche l'insulina, come migliori il gioco del glucosio, quindi alimenti a rapida assimilazione come maltodestrine, riso bianco, pasta, pane ed altro non troppo ricco in fibre (che ne rallentano l'assorbimento).
Una quota calorica del 20 o 50% oltre il proprio fabbisogno giornaliero, se la fase di dieta non era troppo estrema, potrebbe bastare a dar una buona impennata alla leptina. La durata del refeed dovrebbe limitarsi, in questo caso, a sole 24/36 ore.
Un approccio da cutting più estremo, ad esempio 4 o 5 giorni con un deficit calorico del 50% o oltre, dovrebbe approcciarsi ad una fase di refeed o più "intensa" della precedente o di maggiore durata.
La regola generale della fase di ricarica è: " più alte sono le calorie nel periodo di cut, di più breve durata sarà la ricarica ". Questo vale anche per la stessa fase di refeed. Se si decide di tenere un surplus calorico maggiore del 50% del proprio TDEE (consumo calorico giornaliero) consiglio di limitarla a sole 24 ore.
Altro punto da toccare e trattato nel mio precedente articolo riguarda il proprio "set point": più vicini si è a questo "limite" più intense e frequenti dovranno essere i periodi di refeed, ma di questo ho trattato ampiamente in precedenza.

Leptina e regolazione delle assi ormonali

Non è raro notare una rapidissima perdita di peso durante le prime settimane di dieta ipocalorica. Continuando con la restrizione calorica si incontra comunque un rallentamento o quasi uno stallo nello "scioglimento" dei chili superflui.
I fattori causa di questo "adattamento" sono:
1) Perdita di peso e quindi calo del fabbisogno calorico giornaliero ( dovete resettare le calorie sul nuovo peso raggiunto)
2) Diminuzione della quantità di calorie consumate durante allenamento ed attività giornaliere (a meno che non usiate droghe stimolanti è normale provare un certo senso di stanchezza ed astenia durante una prolungata restrizione calorica.)
3) Aumento della frequenza di attacchi di "binge eating" (mangiare compulsivo), specialmente quando la dieta si protrae per troppo lungo tempo.
Questi sono solo il risultato di una finissima regolazione ormonale che si attua seguendo passo passo la velocità di "svuotamento" delle nostre carissime cellule adipose.
La leptina, come accennato nella prima parte, agisce direttamente a livello dell'ipotalamo.
Soffermiamoci sul punto 1 sopra descritto ovvero il calo del fabbisogno energetico: questo non dipende esclusivamente dalla perdita di peso. Matematicamente parlando, a parità di chili e composizione corporea, noteremo un minor metabolismo basale in chi si trova in uno stato di deficit calorico.
Dipenderà dalla minore assunzione di cibo direte voi e non vi do torto; anche questa gioca un certo ruolo, ma sarebbe minimo il rallentamento metabolico se la considerassimo come unica causa.
Andiamo più a fondo: la leptina tocca direttamente l'ipotalamo. Consideriamo adesso solo l'asse ormonale degli ormoni tiroidei: ipotalamo-ipofisi-tiroide.
La leptina stimola l'ipotalamo a rilasciare TRH (ormone rilasciante la tirotropina); questo forza l'ipofisi a rilasciare TSH (tirotropina o ormone stimolante la tiroide) che va direttamente alla tiroide e le comunica di buttar fuori un po’ di ormoni tiroidei.
Adesso si complicano un po’ le cose: la leptina gioca un doppio ruolo in quest'asse. Essa stimola direttamente l'ipotalamo a rilasciare TRH, tocca direttamente la tiroide ed aumenta il rilascio di T3/T4 (ormoni tiroidei), ma blocca nell'ipofisi il rilascio di TSH. Sembra complicato, ma non lo è se prendete in considerazione il sistema del "feedback negativo".
Il feedback negativo serve a regolare il livello dei nostri ormoni. Ogni ormone del nostro corpo comunica direttamente con l'ipotalamo e l'ipofisi e quando viene avvertito un livello oltre la nostra individuale "soglia", ipotalamo ed ipofisi smettono di liberare "RF" (releasing factors, ormoni che colpiscono una determinata ghiandola al fine di farle rilasciare il suo prodotto. Esempio i surreni che rilasciano catecolamine e cortisolo, tiroide che rilascia T4 e T3, etc, etc) e questo riporta il tutto nel giusto equilibrio.
Torniamo alla duplice azione della leptina sull'asse della tiroide: di norma quando il TSH è basso anche gli ormoni tiroidei registrano un calo, ma solo nel lungo termine. Un basso livello di tiroidei porta all'aumento del TSH, quando T3 e T4 si sono stabilizzati il TSH tende a scendere: azione di feedback negativo. La leptina cambia le regole del gioco: diventa l'artefice di questa regolazione aumentando direttamente i tiroidei, il TRH e bloccando il TSH; elimina del tutto il "ciclo di feedback negativo" divenendo lei stessa "braccio e strumento".
Passiamo alla parte pratica: questo "override" (capacità di oltrepassare) del feed back negativo comporta che, al calare della leptina durante una fase di restrizione calorica, si avrà una diminuzione del TRH e degli ormoni tiroidei con conseguente calo del metabolismo basale.
Infatti, alcuni studi sulle cavie mostravano un ristabilimento dell'asse ipotalamo-ipofisi-tiroide e conseguente aumento del BMR con supplementazioni di leptina durante un periodo in cui l'alimentazione copriva solo l’80/90% del fabbisogno basale.
Non si ferma qui questa fine regolazione: se bastasse solo un piccolo deficit calorico per far calare rapidamente la leptina, allora in sole 4 settimane avremo un livello pari allo 0 e ciò comporterebbe seri problemi al nostro corpo!
Leptina e TSH lavorano come antagonisti in questo sistema. La leptina aumenta, aumentano i tiroidei ed il TSH tende a scendere. La leptina ha un brusco calo, gli ormoni tiroidei diminuiscono ed il TSH ha un'impennata. Questo controllo alternato fa si che, durante fasi di dieta estrema, non arriveremo mai ad un "livello zero" della leptina grazie all'azione del TSH che, oltre la tiroide, tocca anche le cellule adipose comunicando loro di aumentarne la produzione.

Regolazione degli ormoni sessuali

L'asse " I-I-T " (ipotalamo-ipofisi-testicoli) è regolata dagli estrogeni e dallo stato metabolico: sia un eccesso dei primi che l'ipoglicemia da digiuno tendono a far diminuire il rilascio di GnRh (ormone rilasciante le gonadotropine).
Il GnRh rilasciato dall'ipotalamo ha il compito di stimolare l'ipofisi a "buttar fuori" le gonadotropine LH ed FSH. Il primo, ormone luteinizzante, tocca le gonadi e comunica loro di aumentare la produzione di testosterone. Il secondo, ormone follicolo stimolante, stimola i testicoli a produrre liquido seminale.
Come trattato nel mio precedente articolo un aumento degli estrogeni tende a diminuire il GnRh, il rilascio di gonadotropine e la produzione di testosterone. Simile effetto lo si ha anche in stato di ipoglicemia da digiuno prolungato.
Quando lo stomaco è vuoto il nervo vagale afferente che lo collega all'ipotalamo viene inondato di impulsi; questo porta ad un rapido rilascio di nor-epinefrina nel nucleo ipotalamico paraventricolare. La nor-epinefrina è direttamente legata alla sensibilità ed all'espressione dei recettori degli estrogeni: un suo aumento comporta una maggiore concentrazione e sensibilità di essi. Continuando con il digiuno il livello di nor-epinefrina aumenterà ancora accompagnato da NPY (neuropeptide-Y) e CRF (fattore rilasciante la corticotropina che comunica all'ipofisi di liberare corticotropina, ormone direttamente legato al rilascio di cortisolo); tutto ciò porta ad un’ipersensibilità dei recettori B-ER (recettori degli estrogeni-Beta).
Il risultato sarà:
1) Aumento del cortisolo
2) Calo delle gonadotropine (LH ed FSH)
3) Aumento del rapporto estrogeni: androgeni a favore dei primi.
Il legame tra leptina e testosterone è un po’ più complesso e ancora non del tutto ben capito. Il testosterone sembra avere una correlazione inversa con la leptina: all'aumentare del primo si avrà un calo dell'altra. La leptina stimola direttamente l'ipotalamo a rilasciare GnRh, quindi aumento di LH seguito da maggior produzione di testosterone. Il motivo per cui quest'ultimo porta un calo della leptina è facile da capire. Il legame positivo tra leptina, insulina e BMI (indice di massa corporea) è molto forte. La leptina è prodotta principalmente dalle cellule adipose del sottocutaneo: alti livelli di testosterone portano ad un accumulo di grasso viscerale e riduzione dell'adipe sottocutaneo con conseguente minore BMI e diminuzione della leptina.
Questo non deve far allarmare; come detto in precedenza, livelli bassi di leptina aumentano la sensibilità dei suoi recettori. Il testosterone fa lo stesso: un elevato livello porta ad un’ipersensibilizzazione degli Ob-Rb con conseguente miglior "comunicazione".
Altro lato positivo della perdita di grasso sottocutaneo, sito in cui si ha la maggiore espressione dell'enzima aromatase, è il calo degli estrogeni ed un miglioramento, quindi, del rapporto testosterone: estradiolo.


The bodyrecomposition Hypertrophic Training routine

Ogni sessione consta di 6 esercizi, 4 serie per esercizio, ripetizioni nel range di 6/8 per serie. La cadenza di esecuzione in secondi è: 1-1-2; un secondo fase concentrica (quando tirate su il carico)‚ un secondo di attesa nella fase di accorciamento totale (quando il muscolo o il gruppo muscolare che state allenando raggiunge la massima contrazione. Un paio di esempi per farvi capire: quando il bilanciere raggiunge il mento durante l’esecuzione del curl; fase in cui i manubri si toccano nell’esecuzione delle croci ) e 2 secondi fase eccentrica (la fase in cui scendete il carico.)

La prima serie di ogni esercizio la definisco “serie di attivazione”: il carico non deve essere troppo elevato da stressare il muscolo, ma nemmeno troppo basso da non portare la quasi totale attivazione delle fibre muscolari ( “attivazione neuro-muscolare” ). Il livello di intensità di questa prima serie, quindi, sarà nel range del 12 o 15 RM (ripetizioni massime senza aiuto). Le successive 3 serie avranno un carico di 8 RM. Il tempo di riposo tra le serie sarà di circa 2 minuti.
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Messaggio Da mpedrazzi Dom Lug 08, 2012 8:58 am

ottimo articolo, la sola cosa che mi lascia perplesso sono le calorie in fase di cutting.

2,2gr di proteine x kg di lbm
Non più di 30gr di carboidrati al giorno e solo da verdure fibrose.
Non più di 20gr di grassi

Con questi numeri e la mia LBM arrivo a poco + di 800 Kcal. Sono molto poche e temo che il metabolismo possa rispondere rallentando.
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Messaggio Da Conan Dom Lug 08, 2012 9:52 am

In effetti è un metodo parecchio drastico. Si vuole basare sul fatto che stando a così basse calorie anche sopo per un paio di giorni il corpo andrà in forte deficit calorico e sarà costretto a mobilitare i grassi per ricavarne energia. Inoltre un periodo di restrizione calorica seppur molto elevata ma per un periodo così breve non crea grandi cambiamenti a livello metabolico

In realtà la body recomposition se utilizzata da un atleta con % di grasso non tanto alte può essere rimodellata un pò rendendola meno rigida ma mantenendo sempre i principi di base quindi periodi ipocalorici alternati a periodi a più alto tenore calorico. Se siamo già su % di grasso medio-basse non ha senso fare una body-recomp. completa, ha più senso se partiamo da % molto superiori e se abbiamo serie difficoltà a definirci e scendere a % di grasso che facciano mostrare gli addominali pur seguendo una dieta corretta.
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Messaggio Da gio'rock Dom Lug 08, 2012 2:38 pm

morirei di fame dopo 12 ore.......
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Messaggio Da Conan Dom Lug 08, 2012 11:01 pm

Di certo se non si è abituati è una bella batosta iniziare una body-recomp. uscendo da un periodo di massa.
E' un po' come la warrior: se non si è abituati e la si inizia a seguire senza un periodo di adattamento è dura, ma c'è gente che la segue da anni e pur essendo magra non avverte nessun problema
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Messaggio Da gio'rock Lun Lug 09, 2012 1:24 am

penso che dipenda anche dal tipo di metabolismo che ognuno ha ,
avendo un metabolismo molto veloce la vedo dura per il sottoscritto :asd:
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Messaggio Da Conan Lun Lug 09, 2012 2:31 am

Esatto ed idem: io mi tiro solo a tagliare un pò i carboidrati rispetto al solito, se dovessi fare una cheto o cose simili finirei steso per terra :asd:
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Messaggio Da mpedrazzi Lun Lug 09, 2012 4:02 am

Io sono un tipo che fa molta fatica a scendere sotto 16%, per questo motivo mi interessa. Ho provato di tutto ma non sono mai arrivato oltre 16%.

Potrebbe essere la strada buona, in caso di dubbi magari chiedo a gli esperti del forum.

Grazie
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Messaggio Da Conan Lun Lug 09, 2012 4:22 am

Potresti fare nella fase di psfm una modifica in modo da tenere un pò più alte le calorie ed i carboidrati (sempre stando in ipocalorica): con questo caldo stare troppo bassi di calorie non è il massimo, soprattutto se uno non è abituato a fare cose così estreme.
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Messaggio Da gio'rock Lun Lug 09, 2012 5:50 am

mpedrazzi tentar non nuoce , provi una settimana con piccole modifiche in base alle tue esigenze e poi valuti.....
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Messaggio Da mpedrazzi Lun Lug 09, 2012 8:34 am

Grazie per i vostri preziosi consigli. Magari faccio una mini carb load post wo con 40 g di cho a basso ig.

vediamo come va
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Messaggio Da Conan Lun Lug 09, 2012 1:35 pm

Post-wo è meglio ad alto i.g. o comunque medio-alto, anche in low-carb è il momento della giornata (insieme alla colazione) in cui il corpo è maggiormente tollerante ai carboidrati.
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Messaggio Da mpedrazzi Mar Lug 10, 2012 11:48 pm

Ho fatto un giro in palestra. Bè tutti gli atleti che fanno gare si alimentano in questo modo o una sua variante. La costante è giorni bassi e ricarica.

Le quote di pro. per Kg. risultano piu' alte circa 3-4 gr. x Kg. Nei casi di scarico di carbo molto lunghe (fino a 3 mesi) alcuni alzano i grassi per compensare la mancanza di cho.
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Messaggio Da Conan Mer Lug 11, 2012 12:35 am

mpedrazzi ha scritto:Ho fatto un giro in palestra. Bè tutti gli atleti che fanno gare si alimentano in questo modo o una sua variante. La costante è giorni bassi e ricarica.

Atleti che gareggiano e che quindi richiedono % di massa grassa più basse possibili. Per chi, come noi non ha bisogno di arrivare a quei livelli di definizione ma è sufficiente un addome visibile e ben delineato basta anche una low-carb.

mpedrazzi ha scritto:Le quote di pro. per Kg. risultano piu' alte circa 3-4 gr. x Kg. Nei casi di scarico di carbo molto lunghe (fino a 3 mesi) alcuni alzano i grassi per compensare la mancanza di cho.

3-4 x Kg non sono poche, parliamo sempre di regimi nutrizionali abbastanza estremi. Lo fanno per compensare alla (quasi) totale mancanza di carboidrati però questo non è un regime nutrizionale fisiologico e funzionale per il nostro organismo.....
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Messaggio Da mpedrazzi Sab Set 07, 2013 3:42 am

E da molto che non scrivo ma voglio inserire alcune impressioni in merito a questo tipo di alimentazione che ho sperimentato.
Durate la fase a bassi carbo ho notato un’intensificazione dei dolori muscolari e perdita di tono muscolare.
Il tutto rientra dopo la ricarica. Per questo motivo ho deciso di provare ad assumere dei carbo pre e post allenamento.
Vedremo
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